Tutte le volte che succede qualcosa in Italia, c’è la corsa ad inasprire le pene. Come se quelle che già ci sono non bastassero. È una situazione figlia del bisogno di ministri e parlamentari di farsi notare, in una bulimia di dichiarazioni e azioni che spesso non hanno dietro pensiero o riflessione.

La cultura giuridica europea ed italiana hanno stabilito nel corso dei secoli dei principi che dovrebbero guidare i decisori politici.

Primo tra tutti, il valore rieducativo della pena, stabilito dall’art. 27 della Costituzione. Non dovrebbe prevalere la punizione ma la costruzione di un percorso che permetta a chi ha sbagliato di capire i propri errori e di reinserirsi nella società.

Il secondo è la proporzionalità che dovrebbe esistere tra reato e pena. Proporzionalità che viene meno se ogni volta giochiamo al rilancio e alziamo l’asticella.

L’ultimo è la certezza della pena: che senso ha promettere l’ergastolo per ogni cosa, se poi le promesse non hanno seguito? Se per cose più gravi siamo subito pronti al condono?

E da ultimo, come possiamo giocare al rilancio e proporre il carcere per qualsiasi cosa quando i nostri istituti penitenziari sono sovraffollati, vecchi, insicuri e insalubri? Come si può costruire un futuro diverso chi entra in un non-luogo?

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